Come mai in tutto l'Abruzzo nessuno parla di «wafer» ma solo di "fruffrù"?

Quale meccanismo ha fatto diventare questi biscotti industriali quasi un prodotto della nostra tradizione?

Perché la versione più diffusa di questi biscotti di origine straniera è detta «napoletana»?

 

Molti anni fa, quando si usciva faticosamente dalle ristrettezze del dopoguerra, il festeggiamento tipico in occasione di battesimi, prime comunioni o matrimoni era il cosiddetto «ricevimento». Gli invitati andavano a casa dei festeggiati consegnando il regalo (mai le buste con denaro!) e ricevendo un ricco assortimento di leccornie accompagnate da bevande e liquori vari.

Il «ricevimento» era la jattura dei genitori, preoccupati dall’esborso per il regalo, e la festa di noi bambini che, partecipando alla cerimonia o aspettando il rientro a casa della mamma, potevamo ingozzarci con un bel po’ di squisitezze. Se ricordate bene, tra i vari dolciumi fatti in casa e quelli prodotti artigianalmente dalle rinomate pasticcerie guardiesi (cui, onore al merito, dobbiamo aggiungere “Rusine di Mitille” e “Susanne”), ebbene, insieme con questi prodotti locali non poteva mancare lui, “lu fruffrù”, unico prodotto industriale, dalla fragranza ineguagliabile e assolutamente alla vaniglia.

Li fruffrù”, che nessuno si sognava di chiamare «wafer», erano prodotti dalla Saiwa e venduti sfusi esclusivamente presso le pasticcerie, di “Eme” o di “Massimine”. Passarono anni prima di poterli trovare confezionati nei supermercati!

Tutto questo per rappresentare come i “fruffrù” facciano parte della tradizione dolciaria più antica del nostro Abruzzo, non in quanto prodotto locale ma per il radicamento tra le consuetudini del nostro territorio.

Insomma, questo biscotto abruzzese d’adozione merita di essere celebrato appropriatamente raccontandone la storia con i suoi interessanti risvolti.

Il biscotto, con le caratteristiche odierne, è nato nel 1898 in Austria come “Manner Original Neapolitan Wafer n. 239”, prodotto industriale dell’azienda Manner che lo produce tuttora.

Vi starete subito chiedendo: «Cosa c’entra Napoli in un biscotto nato in Austria?». Per capire meglio la faccenda iniziamo dal capo opposto che non è Napoli ma Avella, in provincia di Avellino.

Già in epoca romana era molto apprezzato quel gustosissimo frutto, la nocciola, di cui altre zone si fregiano oggi del marchio IGP ma a quei tempi era chiamata significativamente «nux avellana», noce di Avella, indiscutibilmente la più bella e la più buona. Il riferimento geografico entrò poi direttamente nell’italiano che ufficialmente conserva ancora le denominazioni di avellana e avellano per indicare la nocciola e il nocciòlo. Ricordate il nostro D’Annunzio che, a proposito dei suoi «Pastori», scriveva «rinnovato hanno verga d’avellano»? Certamente sì!

E allora, poteva l’arte pasticcera napoletana non farsi influenzare da una così golosa specialità locale? Assolutamente, no! Ebbene, nella pasticceria napoletana più classica ritroviamo una squisita «crema napoletana» alla nocciola che può essere considerata l’antenata della nutella e la «deliziosa napoletana», un pasticcino costituito da due biscotti con una spessa farcitura di crema al burro contornata da granella di nocciole.

Utilizzando esclusivamente nocciole avellane e rendendo forse anche omaggio alla forma e al gusto della «deliziosa», alla Manner decisero di chiamare quel biscotto, realizzato con cialde inframmezzate da strati di crema alla nocciola, “Neapolitaner wafer”, ovvero «wafer napoletano»! Da allora nell’area mitteleuropea il wafer alla nocciola è conosciuto come wafer “napoletano”.

Ben presto il wafer arrivò in Italia soprattutto per merito della SAIWA, acronimo di Società Accomandita Industria Wafer Affini. L’azienda nacque a Genova nel 1900 e il marchio venne registrato nel 1920 quando venne ideato, pensate un po’, da Gabriele D’Annunzio, efficacissimo copywriter ante-litteram. In realtà, l’azienda produceva inizialmente semplici cialde dolci e solo successivamente iniziò a commercializzare i wafer “austriaci” con vari tipi di farcitura. Grazie alla Saiwa i wafer divennero un biscotto a diffusione nazionale.

Ma veniamo ora al nome.

Potreste immaginare che nell’Italia di quell’epoca, tra diffuso analfabetismo, difficoltà ad esprimersi in italiano e bando di termini stranieri, potesse diffondersi il termine «wafer»? Molto difficile. Infatti, nel Centro-Sud d’Italia il biscotto divenne popolare col nome di fruffrù (o fru-fru), preso a prestito da un’onomatopea già presente in italiano ma legata al fruscio di stoffe. La friabilità caratteristica del biscotto non poteva però trovare rappresentazione più appropriata!

Il nome originale di wafer ha cominciato ad attecchire lentamente e dopo un buon numero di anni. Dappertutto, ma con qualche eccezione: molte zone della Toscana e, come sapete benissimo, tutto ma proprio tutto l’Abruzzo!

In conclusione, «fruffrù» non è un nome dialettale ma italiano (gli scettici consultino qualche buon dizionario) e continua ad essere popolare nelle nostre terre perché, rispetto a wafer, è più semplice, più simpatico, più evocativo e tanto adattabile alla nostra pronuncia da essere ritenuto genuinamente dialettale.

Ultimo aggiornamento ( 06 Maggio 2020)