/suwàttë/ - s.f. - #1. – coramella a strappo; correggia di finimento o calzatura #2. (fig.) – colpo violento

L’origine della parola “süatte” non è unanimemente accettata dagli studiosi di etimologia, ma a noi una sembra molto più convincente delle altre. Il percorso partirebbe da «soga», termine giunto nell’italiano dal Nord-Europa in epoca medievale, poco usato ma presente nella Divina Commedia. Esso indicava un elemento che lega (corda o correggia) e molti dialetti italiani se ne sono appropriati creando anche i corrispondenti diminutivi. Nell’area abruzzese da “soghe” sembra sia derivato il diminutivo “sugatte” e quindi, inevitabilmente, “süatte”, dopo la sparizione della g attraverso smorzamenti sempre più intensi. Si noti che in italiano è presente il termine «sogatto» o «sugatto» per indicare una generica striscia di cuoio e in particolare le corregge usate per legare le corna dei buoi al giogo.

Erano «sugatti» (o “süatte”) pure i lacci in cuoio che si usavano una volta in certi tipi di scarpe in vacchetta. Sarebbero da chiamare così anche quelli per scarponi o per calzature tipo Timberland classiche, ma c’è chi li chiama “crijule” con buone ragioni sulla base della derivazione latina.

In alcune aree abruzzesi la “süatte” indica anche la cinghia dei pantaloni ma a Guardiagrele e dintorni il termine si è, diciamo così, specializzato a significare la coramella a strappo, oggetto forse desueto ma che ha ancora un certo numero di estimatori.

Non avete ben presente di cosa stiamo parlando? Comprensibile perché ormai non capita più di vederne tante in giro. La coramella (dal latino «corium», cuoio, al pari di correggia) è la striscia di cuoio che qualcuno usa ancora per ravvivare il filo dei rasoi e anche i calzolai utilizzano per rendere più efficace il taglio dei trincetti.

Solo due parole per spiegare ai meno attempati perché si ricorre alla coramella.

Gli uomini da sempre e le donne più recentemente hanno consapevolezza dell’importanza dell’affilatura del rasoio o della lametta per avere una rasatura o depilazione perfetta, indolore e priva di irritazioni della pelle. Una lama bene affilata perde le sue migliori caratteristiche, anche se usata una sola volta, a causa della formazione a livello microscopico di depositi di ossido e di dentini sul filo tagliente della lama. Il trattamento con la coramella consente di eliminare l’ossido e, anche se non elimina la dentellatura, ne allinea i dentini riducendo significativamente il decadimento delle prestazioni. Si dice che il filo viene in tal modo «ravvivato» e solo dopo un certo numero di utilizzi sarà necessario ricorrere alla riaffilatura mediante cote (la “cute”).

L’efficacia dell’operazione era ben nota e quindi i barbieri si compiacevano nel mostrare al cliente la «scoramellata» prima di procedere al taglio. La coramella era sempre a portata di mano in tutte le barberie e da piccoli si rimaneva ammirati dall’abilità dei barbieri nell’eseguire l’operazione.

Abbiamo parlato di quando eravamo piccoli perché da qualche decennio le norme emanate a salvaguardia dell’igiene hanno di fatto vietato ai barbieri l’uso del rasoio classico, quello «a mano libera». La tradizione sopravvive, fortunatamente, presso un nutrito manipolo di nostalgici che, per uso personale, continua a perpetuare il metodo classico facendo sì che le coramelle abbiano ancora un loro mercato.

È bene precisare che esistono più tipi di coramella ma nel nostro territorio si è sempre usata esclusivamente la versione cosiddetta «a strappo», quella costituita da una striscia di cuoio da attaccare alla parete e da tenere mediante un’impugnatura. Questa versione poteva a ragione definirsi una “süatte”.

Però c’è anche chi si ricorda della “süatte” con sovrano terrore perché esso rappresentava il più pratico strumento sostitutivo della cinghia dei pantaloni, ma non come accessorio d’abbigliamento, bensì per la punizione dei ragazzi, diciamo così, vivaci.

Quest’uso improprio era agevolato dal fatto che lo strumento, nei tempi andati, era ben a portata di mano nella cucina di casa. Infatti, se escludiamo le abitazioni signorili, nelle altre case i gabinetti domestici, non le chiamiamo stanze da bagno, erano notevolmente angusti o addirittura fuori del fabbricato: per farsi la barba si usava il tavolo e il lavello di cucina. Per amministrare la giustizia paterna non occorreva, quindi, sfilarsi la cinghia e tenere con una mano i pantaloni; bastava afferrare per l’impugnatura la “süatte” che era lì appesa, comoda e a disposizione.

Gli effetti da scudiscio sulle carni erano purtroppo garantiti.

Forse è stato a causa di questi risultati che molti ricordano la “süatte” solo nel significato figurato di colpo violento.

Ultimo aggiornamento ( 10 Luglio 2019)