Questa volta ci occupiamo di una parola che indica un esercizio commerciale oggi molto diffuso ma che – sembra incredibile – ha sempre trovato una certa resistenza nell’uso tra la popolazione e tra i puristi prima nell’italiano e tuttora nel dialetto. Per spiegare il fenomeno occorre risalire a come e quando questi esercizi sono nati e si sono diffusi nei territori interessati.

Per comprendere la sua particolarità bisogna partire dalla considerazione che del termine «ristorante» o «ristoratore», fino ad un paio di secoli fa, non vi era traccia. A quell’epoca si usavano ancora termini quali osterie e taverne, esercizi che si dedicavano principalmente alla mescita di vino e solo secondariamente alla somministrazione di pasti. Dalle nostre parti per essi si parlava indistintamente di “cantine”. C’erano poi gli alberghi e le locande nei quali si poteva soggiornare o avere pasti anche senza alloggiarvi.

Tutte queste tipologie venivano ridotte a solo due nell’uso popolare. Si parlava di “alberghe” se il servizio era di alloggio e ristorazione (con una certa ricercatezza), di “cantine” quando le caratteristiche erano di osteria con eventuale servizio di ristorazione o alloggio.

Per definire poi la nuova tipologia di locali destinati esclusivamente alla somministrazione di pasti senza il rischio di ritrovarsi in compagnia di avventori alticci e vocianti, nell’italiano si coniarono dal francese i neologismi più specifici di «trattoria» e «ristorante». Questi esercizi, però, dalle nostre parti non attecchirono in modo significativo e quindi si continuò a parlare di “alberghe” e “cantine”. E a chi si attardava nei preparativi per il pranzo o per la cena si usava chiedere ironicamente: “’Mbè, chi vì a magna’ all’alberghe?”.

A Guardiagrele, località climatica, gli alberghi erano frequentati principalmente per le villeggiature estive. Nel resto dell’anno questi esercizi sopravvivevano con ospiti occasionali di passaggio - cui assicuravano vitto e alloggio - e soprattutto con i pranzi offerti in occasione di cerimonie famigliari, soprattutto matrimoni.

Nell’ultimo dopoguerra le “cantine” erano tantissime, però, in tutto il territorio comunale, funzionava un solo appena inaugurato, l’Albergo Orientale conosciuto come l’“alberghe di Giacobbe”), in centro, nello spiazzo della Porta S. Pietro, in via Modesto Della Porta. C’erano anche altre strutture ricettive in cui alloggiare, quali l’Albergo Stella da “Giannette” al Capocroce e “Mapane” corrispondente all’attuale Cantina del Tripio, ma esse erano classificate come “cantine” in base alle definizioni appena descritte. A sparigliare la situazione, dal punto di vista dei servizi ricettivi e pure da quello lessicale, scaturì negli anni ’60, l’«Hotel Granada» che Nello Santoleri realizzò in località Colle Granaro (da cui il nome riadattato). Quando l’Albergo Orientale cominciava a mostrare i primi segni di declino e “Giannette” aveva ormai eliminato il servizio ricettivo, il nuovo albergo cominciò ad affermarsi nel nostro territorio ma, paradossalmente, più per la ristorazione che per il soggiorno. Ciò nonostante, la parola estranea “risturante” continuava a provocare rigetto nella parlata dialettale: si andava “a magna’ a Granade” (o anche “a Pumpee”). Oppure “a Bucche di Valle” (altri alberghi-ristoranti).

Molto significativo è il rigetto che ha continuato a manifestarsi anche quando cominciarono a nascere esercizi che a buona ragione si definivano ristoranti: fermandoci alle soglie del 2000, si andava “a magna’ a Pippine” (Villa Maiella), “a Santa Chjare”, “a Ta-pù”, “a Mapane” (la Cantina del Tripio), “a Elise”. Mai si pronunciava la parola “risturante”. Anzi, qualcuno specificava «ristorante» ma rimarcando nella pronuncia la forma in lingua italiana.

Raccontata per sommi capi questa storia, riferibile nei suoi tratti principali a tutto il territorio abruzzese, vorremmo concludere con un invito: usate pure tranquillamente “risturante” nel dialetto. Accogliete questa parola come un buon figlio adottivo senza diffidenze. Si tratta di applicare il criterio fondamentale per i neologismi: «È utile? Si può agevolmente farne a meno?». Se le risposte sono decisamente un sì e poi un no, come a noi sembra, allora si dia il via libera all’uso, anzi, in questo caso, favoriamolo! Senza riluttanze, perché per il dialetto si tratta di un arricchimento e non di un impoverimento come più spesso avviene per altri neologismi.

Da parte nostra la inseriamo «honoris causa» tra le “Bone Parole” del nostro dialetto.

Ultimo aggiornamento ( 24 Ottobre 2023)