Capita a volte di trovarsi in imbarazzo perché si è nella necessità di indicare un oggetto di cui non si conosce il nome. La via d’uscita più semplice sarebbe quella di far ricorso a una lingua o dialetto diverso e poi, prima di ricorrere a descrizioni magari faticose e imprecise, provare ad inventarsi là per là un nome evocativo. Ma questo richiede un certo numero di conoscenze un po’ di abilità, bagaglio che non tutti possiedono al livello necessario.

Forse proprio questa necessità ha portato alla situazione da cui sono poi scaturite dalle nostre parti le discussioni a riguardo di una risposta a un quiz proposto durante una popolarissima trasmissione televisiva. La risposta comportava l’affermazione che in Abruzzo il “vattacicerchie” è uno strumento musicale.

Probabilmente l’autore della domanda sarà stato fuorviato da Wikipedia che, in una voce ancora in sviluppo riguardante il tamburo a frizione, menziona le diverse denominazioni regionali e per l’Abruzzo riporta, appunto, “vattacicerchie”. Ci permettiamo di dissentire piuttosto fermamente.

Il tamburo a frizione, strumento musicale tradizionale diffuso in tutta l’Italia meridionale, dalle nostre parti è chiamato in vari modi, i più comuni sono “bufù” (di provenienza molisana), “caccavelle” e “putipù” (di origine campana). Tanti altri sono nomi improvvisati, quasi sempre onomatopeici, ma che qualcosa di simile allo strumento o a una sua parte possa essere usato per battere le cicerchie è difficile da sostenere. Neanche il suono prodotto ha qualche affinità.

In agricoltura, per estrarre i semi commestibili da cereali e leguminose si usava battere con bastoni le spighe e i baccelli essiccati. Uno strumento più efficace del semplice bastone era costituito da due bastoni legati ad un’estremità ma liberi di ruotare. Il più lungo di essi fungeva da manico e l’altro da battente. Richiedeva una certa abilità manuale perché un suo uso maldestro poteva avere conseguenze molto dolorose se non di peggio. Forse questo è stato il motivo per cui lo strumento era conosciuto da tutti gli agricoltori ma non era usato comunemente e quindi il suo nome popolare nei diversi dialetti locali non si estendeva oltre ambiti molto ristretti. In Abruzzo si possono trovare tre denominazioni abbastanza consolidate: “flajelle” (da flagello), “mazzafruste”, “vattiture”. Ci sono poi tante denominazioni improvvisate riguardanti usi specifici (“vattacice”, “vattafave” e “vattacicirchje”).

Se vi state meravigliando della sua somiglianza con il «nunchaku», il ben noto attrezzo per arti marziali, rasserenatevi: è proprio lui! Lo strumento viene usato anche al giorno d’oggi in tante aree del mondo in cui l’agricoltura non è molto sviluppata.

Tornando a “vattacicirchje”, dobbiamo dire la sua origine e diffusione risultano più intricate di quanto si possa pensare. Cominciamo col dire che lo strumento, in Abruzzo, è preminentemente noto con il nome di “flajelle” (o “frajelle”). Segue a distanza la denominazione di “vattiture” (o “vattitore”) e ancor meno presente risulta “mazzafruste” (o “mazzafuste”). Altre denominazioni hanno una presenza quasi irrilevante. La conferma la si può trovare nel «Dizionario Abruzzese e Molisano», curato da E. Giammarco e pubblicato negli anni ’70 del secolo scorso, il quale fornisce anche le aree di diffusione dei singoli vocaboli: al di là delle tre denominazioni sopra riportate, se ne trovano alcune altre solo in aree molto ristrette. Nello specifico, mentre di “vattacice” e “vattafave” vi sono semplici citazioni, la voce “vattacicirchje” non è proprio presente. E qui ci viene il sospetto che nella faccenda ci possa essere lo zampino del nostro amico ‘Nduccio.

Poiché ci risulta che le tre denominazioni che richiamano i legumi fossero presenti da tempi immemori, ci torna curioso che ai tempi nostri la denominazione meno appropriata ma più scherzosa, “vattacicirchje”, sia quella più ricorrente. E probabilmente è tutta opera di ‘Nduccio.

Sì, perché pensiamo che il geniale artista abruzzese abbia ripreso quella denominazione proprio perché buffa e l’abbia inserita nel recitato introduttivo del suo più famoso brano musicale, «Sott’a la capanne», uscito negli stessi anni del Dizionario di Giammarco.

Il successo del motivo ha reso popolare il termine “vattacicirchje” che da allora è stato usato e abusato. Anche per dare un buffo nome ad un buffo strumento musicale.

Non escludiamo, quindi, che da qualche parte, in Abruzzo, il tamburo a frizione o la raganella siano chiamati “vattacicirchie”, ma lo stesso ‘Nduccio ha confermato che il suo riferimento fu lo strumento agricolo.

Per completare il quadro, un’ultima curiosità da soddisfare a chi si starà chiedendo: «Ma allora, che lo si chiami “flajelle”, “vattiture”, “mazzafruste” o «nunchaku», secondo le varie parlate, quell’oggetto non ce l’ha un nome in italiano?». Certamente! Il suo nome in italiano è «correggiato» (sottinteso «bastone») ovvero bastone munito di correggia (la striscia di cuoio che lega i due pezzi). Detto questo non formuliamo altre considerazioni se non che i singoli componenti hanno anch’essi nomi specifici: «manfanile», il pezzo lungo che funge da manico; «vetta», il bastone battente; «gómbina», la correggia che li unisce.

Ultimo aggiornamento ( 08 Aprile 2021)