Sono in pochi ormai ad usare l’espressione “chjave di pajare” mentre, fino a qualche decennio fa, la si usava diffusamente nelle similitudini per indicare che qualcosa si è rivelato appropriato per un certo uso (“à jite ‘gni na chjave di pajare”). Quasi nessuno però sapeva esattamente di cosa si trattava. La maggior parte delle persone si accontentava di pensare ad uno strano strumento da utilizzare per aprire e chiudere un pagliaio. Per questo uso si pensava a un sistema di serraggio molto rudimentale, talmente semplice da adattarsi certamente alla specifica situazione. In realtà siamo quasi all’opposto!

Bisogna partire dall’identificazione del tipo di pagliaio di cui si parla.

Non si fa riferimento a quei cumuli di paglia o a quei rudimentali ripari che si continuano a vedere nelle nostre campagne, bensì a costruzioni in pietre a secco di forma grossolanamente emisferica (una specie di igloo di pietra) per proteggere la paglia e altro materiale dalle intemperie. Antiche costruzioni di questo tipo si vedono ancora nelle nostre montagne. La chiave in questione è la pietra che si usa nel punto più in alto della volta e riveste un fondamentale significato strutturale. Corrisponde alla chiave di volta di un arco ma non lavora in un solo piano, bensì a 360°, in tutte le direzioni intorno all’asse geometrico dell’opera. Questo comporta che essa deve incastrarsi perfettamente con tutte le pietre che la circondano e quindi la sua realizzazione richiede una grande precisione se si vuole che la cupola stia su.

Per questo motivo, dire che una cosa ha funzionato come una “chjave di pajare” significa che è risultata pienamente soddisfacente all’uso sotto tutti i punti di vista.