«Mannagge a...» «Uh, maramè, Lujiggi’. Zitte, ni sta’ a dire ‘ssi cose!».

Con il ricordo di questo “botta e risposta” da parte della nostra amica Carmelina è iniziata una delle tipiche divagazioni sul dialetto alla nostra Cantine. Si parlava di suo padre Luigino, bestemmiatore seriale, tenuto a freno, spesso invano, dalla consorte, ‘Sabbilline, frequentatrice compulsiva di tutte le chiese che aveva a tiro (sì, proprio na vizzoche!).

La divagazione è iniziata con una discussione sul significato di maramè, intercalare molto ricorrente nei tempi andati sulle bocche delle donne guardiesi. La discussione procedeva senza vie d’uscita mentre donn’Arnaldelu nutare” ci osservava di sottecchi senza intervenire. Sappiamo che lo fa apposta per vederci accapigliare senza risultato ma noi, quasi a dispetto, proviamo sempre a dipanare le matasse senza ricorrere a lui, così, solo per soddisfazione. Anche questa volta, però, ci siamo dovuti arrendere e abbiamo dovuto chiamarlo in causa (“Mannagge!”).

Già, “mannagge”. Donn’Arnalde, bonario e provocatorio, ha subito chiesto se veramente conoscevamo il significato di quest’altra parola, significato che si pensava scontato e, in effetti, non tutti ne erano a conoscenza. Personalmente ho potuto sfoggiare un po’ di cultura spiegando la sua origine in “male ne agge” (“male ne abbia”) equivalente a “maledetto sia”. Donn’Arnalde ha annuito e ha approfittato per farci rilevare che la preposizione a che solitamente la segue, per ovvi motivi grammaticali, non andrebbe usata.

«Sì, va bene, don Arnaldo. Ma maramè?» cominciarono a chiedere. E il nostro massimo esperto, con studiata lentezza, replicò: «Non vi dice niente “mare a maje” che tante volte avrete sentito nel “Lamento di una Vedova”?»

È bastato il richiamo al grido disperato che ricorre nel più antico canto abruzzese per indirizzarci alla soluzione. In effetti “Maramè!” sarebbe “Mare a mè!” e corrisponde a “Mannagge a mè!”, un’imprecazione che potremmo definire eufemistica perché bonariamente si augura il male a se stessi per evitare di invocarlo su chiunque altro.

Per toglierci qualsiasi dubbio siamo andati a consultare il “Dizionario del Dialetto Guardiese”, curato dal nostro don Arnaldo e scaricabile gratuitamente da questo nostro sito. Nessun dubbio sul fatto che, al contrario di quanto sostenuto da qualcuno nella nostra discussione, l’espressione vocativa “Cummara mè” non c’entra proprio: in effetti il grande Modesto (curioso ossimoro) scrive "Uh maramè, cummare, che stì ddire?" e questa non sembra affatto una ripetizione.

Viceversa, nel Dizionario è riportata anche la frase dell’altro grande poeta guardiese, Aldo Aimola: "… ma già sse scinne 'ncuntre vinte furte che 'n terre t'areporte, mare-a-ttè, …". Quindi niente “comare” bensì “male per te” o anche “purtroppo per te”.

Resta solo in piedi l’ipotesi che possa trattarsi di “amare” (amaro) invece di “male”, ma questo non cambierebbe il significato dell’espressione.

Lo struggente canto medievale abruzzese prima citato, di cui non esiste il testo originale ma solo trascrizioni del XVIII secolo, contiene l’esclamazione “maramaje” (a volte trascritto “mara maje” o “mare maje”) accompagnata da “scuramaje” (o “scura maje” o ancora “scure maje”). Quest’ultima esclamazione, tradotta da alcuni autori in modo francamente fantasioso, a nostro parere significa semplicemente “Scuro su di me!”, nel senso di buio o lutto.

Quindi, laddove troviamo nel testo “mare maje, scur'a maje”, o qualcosa di simile, dovremmo intendere e scrivere “mare a maje, scure a maje” e questo non modificherebbe affatto la pronuncia.

A conclusione, ci sia consentito esprimere il desiderio di tornare a riascoltare più spesso i “maramè”, come pure “Tiribbinidiche!”, senza imbarazzi se se ne conosce il significato. Per inciso, anche Emidio Vitacolonna nel suo Glossario suggeriva il significato di “Male a me!” e quindi possiamo ritenere chiusa qui la discussione (forse).

Ultimo aggiornamento ( 25 Luglio 2017)