Le vocali

Nel dialetto guardiese la pronuncia delle vocali è marcata e definita solo quando esse sono accentate (toniche). Negli altri casi la pronuncia avviene secondo una gamma che va da una pronuncia schietta a una praticamente muta attraversando tutti i gradi di sfumatura.

Un quadro sufficientemente rappresentativo della struttura vocalica delle parole ai fini della loro resa grafica può essere eseguito prendendo in considerazione le sole vocali atone e definendo che:

  • la a è sempre identificabile;
  • la o e la u sono identificabili, a meno dei casi in cui la o viene pronunciata in modo accentuatamente chiuso da essere confusa con la u;
  • la i può risultare smorzata finendo con il confondersi con una e, oppure, viceversa, derivare dal rafforzamento di una e;
  • la e ha sempre un suono smorzato e indistinto fino a produrre una vocale praticamente muta.

Si osserva che per le vocali i ed e la rappresentazione presenta qualche incertezza se non si tratta di un loro uso all’interno di dittonghi. Per cercare di risolvere i dubbi più che legittimi, daremo alcune indicazioni per identificare i casi in cui è opportuno usare una i atona da pronunciare in modo più o meno sfumato.

È importante, poi, stabilire che l’uso dialettale guardiese induce ad una pronuncia che prevede sempre una vocale finale, sia pure smorzata. Da questo deriva che la rappresentazione di parole terminanti con consonanti è da ritenersi immotivata e fuorviante. La mancanza della vocale finale, anche se non chiaramente pronunciata, oltre a provocare oggettive difficoltà di lettura, modificherebbe la metrica dei componimenti in versi. L’effettiva soppressione della vocale finale avviene nei casi di elisione o apocope dove, però, la sua presenza nella forma integra è segnalata mediante apostrofo (’).

La vocale terminale sulla quale non cade l’accento è costituita, di norma, da una e con pronuncia indistinta o da una i con pronuncia sfumata. In quest’ultimo caso si evidenzia un innegabile debito nei confronti della corrispondente voce in lingua.

 

Identificazione delle “i” variabili

È stato osservato che la i atona può risultare smorzata fino a potersi confondere con la e indistinta. Per evitare dubbi nella scelta grafica tra le due vocali, si può usare la e atona quando si vuole effettivamente rappresentare il suono indistinto e ricorrere alla i atona per indicare il suono variabile tra la i e la e (indistinta). Si tenga presente che questa variabilità è proprio una caratteristica del dialetto guardiese perché l’uso personalizzato a vari livelli di sfumature rientra in canoni generalmente accettati o, meglio, non stigmatizzati dalla popolazione guardiese.

Stabilito il significato fonetico dei due segni grafici, è il caso di cercare di definire una regola che operi da guida con riferimento all’uso parlato corrente.

Si può dire che in tutti i vocaboli guardiesi, dopo una vocale accentata, non ricorre l’uso di i atone. Si scriverà, quindi, màchene perché alla prima e non corrisponderà mai un suono riconducibile ad una i. Viceversa, prima della vocale accentata ci sarà sempre ambiguità d’uso tra i ed e, per il qual motivo è opportuno utilizzare sistematicamente la i atona (liggire, mititure, picché).

Nel caso particolare dei monosillabi atoni si può preferire la i in modo da comprendere tutti i tipi di pronuncia (di, mi, pi, ti, si) ma si può indicare una e quando si vuole espressamente rappresentare il suono indistinto.

A queste regole esistono poche eccezioni. Quella più importante è legata alle parole composte che continuano a mantenere la connotazione dei termini originari quali, ad esempio, favezepiane, dopedumane, malevidè, pijepporte.

Esiste infine il caso particolare di aji, voce del verbo ave’ quando usato come ausiliare nei tempi composti. Nel parlato esso viene pronunciato in stretto collegamento con il verbo retto e quindi la vocale terminale dell’ausiliare si produce come una vocale indistinta interna, variabile tra i ed e, da rappresentare secondo le regole sopra definite. Si consigliano, quindi, le forme aji ditte, aji minute e aji magnate. Nell’uso normale come verbo ave’ questo fenomeno non si verifica e quindi si resta nella forma regolare àje: “Camine svelte pi l’ità chi àje!”, “Àje a jì a ‘ccatta’ lu pane”.

 

La a sinaptica

In alcuni tipi di legami sintattici, lo stretto accoppiamento tra due vocaboli in successione produce nel dialetto guardiese il fenomeno fonosintattico della a sinaptica. Esso si manifesta nel vocabolo antecedente con la trasformazione della vocale finale indistinta, terminazione tipica dei vocaboli guardiesi, in una a chiaramente pronunciata. Questa trasformazione si verifica in un numero ben definito di vocaboli e in una serie di casi che coinvolgono nomi comuni e propri. Nel seguito si riporta un quadro abbastanza completo di queste situazioni.

  1. Nome femminile singolare seguito da aggettivo o viceversa. Si dice e si scrive: na bella jurnate o na jurnata belle, na dumanda fàcele o na fàcela dumande, na cosa sule o na sula cose.
  2. Nome femminile singolare seguito da un complemento con accento che cade sulla sillaba immediatamente successiva al sostantivo. Si dice e si scrive: na cullana d'ore, na guccia d'oje, na recchja d'àsene, a faccia ‘nterre, la parta ‘mmezze. A causa della posizione dell’accento restano invece invariate cullane d'argente, muntagne d'Abbruzze. lane d’acciaje.
  3. Nomi plurali, maschili o femminili, seguiti da aggettivo possessivo (, , , nustre e vustre). Si dice e si scrive, quindi,: li mana mì, li pida tì, li fija nustre. Si osserva che nell'ultimo esempio si introduce la a anche se questo produce l’ambiguità tra "figli" e "figlie".
  4. Nomi plurali, maschili o femminili, seguiti da aggettivo dimostrativo (quiste, quisse, quille). Si dice e si scrive, quindi: ‘sti jurna quiste, ‘ssi scarpa quisse, chili fatta quille.
  5. Nome proprio femminile seguito dal cognome: Raffajilina Capuzze, Èlida Forlane. In questo caso la regola si applica anche all’eventuale titolo anteposto: Donna Marija belle, Signora Giuvina care, Santa Chiara mè

Come da definizione, la regola nasce dalla volontà di esprimere il legame tra due (o più) vocaboli, quasi a creare una loro fusione. Non si applica quindi nei casi di legami plurimi: neve bianche e frolle, non neva bianche e frolle. Casi particolari si osservano in combinazioni del tipo "cullane e prisintusa d'ore" in cui la presenza della a evidenzia che solo la prisintuse è d'oro. L'espressione "cullane e prisintuse d'ore" indicherebbe, invece, che collana e prisintuse sono entrambe d'oro.

Un'eccezione molto particolare si presenta per la coppia del primo caso tra quelli elencati, quando il secondo termine è un aggettivo iniziante per a àtona (non accentata). In queste condizioni la regola non si applica ma la a non va assolutamente assoggettata ad aferesi, quindi: na rose ammuscilite, la case antiche, la facce arrajate e non na rosa 'mmuscilite, la casa 'ntiche, la faccia 'rrajate. Viceversa, se la a è tonica, la regola si applica identicamente e quindi: fèmena àvete, bella arie, fresca acque. Quando opportuno si può fare anche ricorso all'elisione: bell'arie, tutt'acque.

Come detto esistono anche alcune parole, ben identificabili, soggette al fenomeno della a sinaptica. Si tratta di tante, quante, senze, appene e del desueto manche (meno).

a)    Aggettivi tante e quante anteposti a sostantivo, di qualsiasi genere e numero: tanta gente, quanta disprezze, quanta nuttate, tanta suspire.

b)    Preposizione o congiunzione senze seguita da qualsiasi vocabolo: senza di me, senza lume, senza parla’, senza quatrine. Davanti alla congiunzione chi (che) o ca si usa sia senze che senza.

c)     Appene, davanti a participio passato (appena 'ntrate, appena nate, appena spalazzate) o nelle forme avverbiali appena prime, appena dope, appena botte.

d)    Manche, nell’indicazione di sottrazioni (li cinque manca diece ma mene nu quarte).

Segnaliamo infine alcuni usi idiomatici in cui la a serve a dare una connotazione unitaria ai due termini coinvolti ("Di tutta sorte!", "Santa Nicole!", fìquira sicche, fuja ‘nterre) oppure compare per facilitare la pronuncia davanti a monosillabo tonico ("Addova vi?", "Santa Nicola mè!", “Chi arta fa?”, “Chi ura jè?”).

Precisazione banale è che, per definizione, una a sinaptica non potrà mai comparire in fin di frase, causa mancanza del vocabolo seguente e quindi: manche tante, nin si quante, aveme arimaste senze, si sintè appene, ni m'à ditte addove.

 

Le consonanti

Nella rappresentazione delle consonanti del dialetto guardiese si può far ricorso nella gran parte dei casi ai grafemi tipici dell'alfabeto della lingua italiana. Tuttavia si riscontra un certo numero di consonanti, foneticamente differenti rispetto a quelle usate nell’italiano, che gli studiosi segnalano disciplinatamente nella scrittura ortografica “scientifica”.

Nel nostro approccio secondo un sistema di Ortografia Funzionale occorre affrontare alcuni aspetti specifici per definire regole che possano permettere di coniugare la precisione fonetica alla semplicità di rappresentazione grafica.

Le particolarità più evidenti riguardanti le consonanti si possono identificare nella presenza di alcuni, pochissimi, fonemi caratteristici anche in forma di semiconsonanti e nel fenomeno delle mutazioni fonetiche ormai consolidate e largamente note.

Segnaliamo a riguardo che alla semplicità di rappresentazione abbiamo sacrificato la precisione nel suggerire l’impiego della stessa lettera z sia per la versione sorda (zùcchere), di uso diffuso, che per quella sonora, limitata a pochi casi aggiuntivi rispetto al gruppo nz (panze). Unico caso di ambiguità tra i vocaboli più comuni risulterebbe quello di mezze, forma omografa con diversa pronuncia per indicare “metà” (z sonora) o “sfatto” (z sorda). Il contesto dovrebbe eliminare qualsiasi dubbio.

 

Fonemi speciali

Due casi di fonemi speciali ci sembrano particolarmente interessanti nella parlata guardiese e riguardano:

  • L’agglutinazione della semiconsonante j con una consonante che la precede;
  • la presenza della variante scempia del digramma sc(i/e).

 

Consonante chj

La consonante c dura (/k/ velare sorda) davanti alla vocale i (chi) seguita da altra vocale assume un suono caratteristico che non risulta avere corrispondenza nelle maggiori lingue occidentali. Il fonema risultante, dovuto all’agglutinazione della i e della c dura, è di tipo costrittivo palatale sonoro come quelli di gn (/ת/ nasale palatale di “gnocco”) e gl (/λ/ laterale palatale di “figlio”) ma con appoggio linguale ancora più arretrato e quindi definibile “laterale retro-palatale”.

L’uso del grafema j nel trigramma chj risponde a due principali esigenze:

  • l’evidenza del fonema consonantico senza l’utilizzo di vocali che complicherebbero la sua identificazione;
  • la conservazione della distinzione con la vocale di appoggio seguente (necessaria se trattasi di i).

La soluzione grafica indicata permette, tra l’altro, di scrivere parole quali bicchjire (bicchieri) in modo semplice e foneticamente corretto.

 

Consonante ş

Nei testi scritti in dialetto guardiese capita di incontrare vocaboli contenenti consonanti che naturalmente leggiamo in modo diverso pur se scritti allo stesso modo. Il caso più interessante è quello delle consonanti fricative sorde rappresentate con il digramma sc seguito da vocale e o i.

Si consideri la situazione paradossale dei vocaboli casce e rusce nei quali, di volta in volta, il digramma sc corrisponde ad una pronuncia con articolazione postalveolare per significare, rispettivamente, “cassa” e “rosso” oppure ad una pronuncia con articolazione retroflessa per i significati di “formaggio” e “polverino”. Questa differente articolazione non è presente nell’italiano che, di regola, prevede la prima mentre la seconda si riscontra come variante regionale.

Nel dialetto guardiese, invece, le due articolazioni sono contemporaneamente presenti e danno vita a consonanti chiaramente distinte. L’indisponibilità di un apposito grafema per l’articolazione retroflessa dà luogo a difficoltà nella sua identificazione immediata, fino al caso estremo dei vocaboli omografi sopra citati.

Per definire una rappresentazione con grafemi diversi occorre considerare che l’articolazione postalveolare è assimilabile ad un raddoppiamento della consonante con articolazione retroflessa e questo ha indotto alcuni autori ad introdurre per il primo il trigramma ssc che corrisponderebbe, invece, al fonema che normalmente è rappresentato da sc nell’italiano.

Per evitare ulteriori ambiguità si ritiene più appropriato introdurre nella scrittura dialettale il semplice grafema ş (s con cediglia) mutuandolo direttamente dall’alfabeto fonetico internazionale per rappresentare la consonante fricativa retroflessa sorda. Si avranno in tal modo caşe e ruşe per indicare “formaggio” e “polverino” mentre casce e rusce continueranno a indicare “cassa” e “rosso”. Analogamente si scriverà, ad esempio, vaşe (bacio) e buşe (buco).

 

Mutazioni fonetiche

Innanzi tutto si deve notare come alcuni nessi consonantici, similmente a quanto avviene nelle parlate di gran parte dell’Italia centro-meridionale, presentano ambiguità risolte in modo differente nella scrittura dialettale. Nello specifico avvengono le seguenti mutazioni di consonanti che seguono la n:

  • nc viene pronunciato ng (in entrambi i casi di fonema, dolce o duro, cancelle, mancanze);
  • ns viene pronunciato nz (pinsà’);
  • nt viene pronunciato nd (cantante).

A questo tipo di mutazione è, a buon diritto, riconducibile quella che riguarda

  • mp pronunciato mb (campane),

trattandosi di un adattamento della n davanti alla lettera p.

Di queste mutazioni conviene non tenere conto nella scrittura ma di riservarle alla sola lettura.

Esistono poi due casi particolari di mutazione e riguardano:

  • nf pronunciato mb
  • nv pronunciato mm.

In questi due casi la mutazione non è sistematica. Infatti, accanto a pronunce del tipo cumbette, cumbine, ‘mberne, ‘mmerne, ‘mmite, cummente, coesistono forme, meno usate ma ritenute più ricercate, quali cunfette, cunfine, ‘nferne, ‘nverne, ‘nvite, cunvente. Di particolare rilievo è il caso di ‘mbunne’, che deriva dalla mutazione di ‘nfunne’, forma scomparsa nel guardiese contemporaneo. Per questi ultimi due casi si consiglia una rappresentazione corrispondente alla pronuncia che si intende attestare.

Da notare che le mutazioni sopra elencate avvengono anche quando le due consonanti interessate appartengono a parole diverse (ultima lettera e prima lettera). Ad esempio: ‘n facce, ‘n cape, dun Vincenze vengono pronunciati come ‘mbacce, ‘ngape, dum Mincenze. In questi casi l’adeguamento grafico alla pronuncia appare una forzatura abbastanza evidente e si consiglia di non riportare graficamente la mutazione. Tuttavia, in considerazione di un impiego ormai storico e diffuso in vari dialetti dell'Italia meridionale, è accettabile senza riserve la consuetudine di fondere la 'n con la parola seguente quando si presentano le condizioni per le mutazioni fonetiche sopra elencate. Quanto detto vale anche per il caso di mutazione di nm in mm ('mmezze per 'n mezze).

Un’altra famiglia di mutazioni comprende quelle della s davanti a t o d che sono anch’esse sistematiche. Il primo digramma corrisponderebbe, in effetti, a şt, nel secondo la s avrebbe un suono simile alla j francese e quindi richiederebbe un apposito grafema. Nel rispetto degli obiettivi di un sistema ortografico semplificato, considerando la sistematicità della mutazione, si suggerisce, anche per questi casi, di tralasciarne l’indicazione, conservando le grafie st, sd e affidando al lettore l’esecuzione della mutazione.

 

Semiconsonanti

Le semiconsonanti del dialetto guardiese si riducono sostanzialmente a due e derivano dalle vocali i e u:

  • i semiconsonantica rappresentata da j;
  • u semiconsonantica rappresentabile con w.

 

Semiconsonante w

Nelle opere dialettali l’uso del grafema w, che pur potrebbe avere motivazioni, non trova in effetti riscontri. Al di là dei reali motivi di questa scelta concorde, si ritiene di poterla condividere anche dal punto di vista di una rappresentazione ortograficamente corretta ma semplificata. Infatti, l’utilizzo del grafema w sarebbe richiesto principalmente per rappresentare il digramma gu davanti a vocale e in tal senso produrrebbe grafie quali

wante, werre, warnimente, wardie, waje

nelle quali diventa lampante il richiamo all’origine longobarda delle parole. L’estrema correttezza etimologica di questo impiego non ci sembra sufficiente a giustificarlo a fronte della scarsa utilità e di risultati anche esteticamente scostanti: sarebbe insopportabile che la nostra amata città venisse indicata come Wardiagrele!

Motivazioni più tecniche riguardano il fatto che l’attenuazione con quasi scomparsa della g avviene anche davanti a vocali semplici come in gatte e galline. In questi casi occorrerebbe introdurre ulteriori grafemi che, per il ridotto numero di impieghi, sarebbero incompatibili con una sistema ortografico semplice. Alcuni autori hanno fatto ricorso ad un uso, in verità discontinuo, del grafema h ma il risultato finale diverrebbe l’uso contestuale di w, h e spesso anche g per indicare lo stesso fonema. Una rappresentazione inutilmente differenziata, scarsamente efficace e certamente poco elegante.

In definitiva, si consiglia di utilizzare in tutti casi il grafema g, almeno per memoria etimologica, e di lasciare alla lettura gli adattamenti fonetici, tutto sommato, piuttosto banali.

 

Semiconsonante j

Ben diversa la situazione dell’altra semiconsonante j (i lunga) che trova ampia utilizzazione, in verità non sempre giustificata.

Le motivazioni ragionevoli per l’impiego della j possono essere diverse ma solo alcune indiscutibili. Tra queste includiamo il richiamo alla forma originale dalla quale si sono avute evoluzioni più o meno autonome nel dialetto e nella lingua italiana. In questi casi il trigramma gli presente nell’italiano ha la semiconsonante j come corrispondenza nel dialetto, ad esempio:

ascioje (sciogliere), buttije, cunije, maravije, toje (prendere).

In questa categoria rientrano anche oje e saje che hanno seguito percorsi analoghi ma hanno trovato la forma gli, no nell’italiano, bensì in altri dialetti centro-meridionali.

Una seconda categoria di applicazione indiscutibile riguarda le iniziali di parole che originariamente erano costituite proprio dalla semiconsonante j e sono arrivate a trasformarsi in g dolce nell’italiano, Tra esse si possono citare:

jetta’, jinucchie, juca’, judizie, jumente, jummelle, jurne, juste, juva’.

Mentre le due categorie precedenti coprono una parte importante dei casi di impiego della semiconsonante j, lo stesso fonema è utilizzato in un’altra serie di casi abbastanza consistenti. Tra questi il più comune è la sua presenza per motivi etimologici o eufonici, con una pronuncia che la assimila a una vera e propria consonante. Alcuni esempi:

pazzija’, cajole, mijiche, sijuzze, ajute, cuscijinzie, salvijitte, cujete, nujuse, zìjeme, jerve, , ajecche.

Per completezza occorre menzionare il caso in cui la semiconsonante j viene utilizzata per motivi ortografici preminenti a quelli fonetici. Oltre all’uso nella consonante speciale chj, se ne richiede l’impiego per evidenziare la presenza dei fonemi bj e pj davanti alla vocale i. Gli esempi sono tuttavia abbastanza limitati e possono, in effetti, limitarsi a bjite, pjica’, pjine con le forme derivate.

È importante precisare, infine, che nel dialetto guardiese il raddoppiamento jj riguarda solo casi eccezionali (ajjuzza’).

 

Raddoppiamento

Con maggiore frequenza rispetto alla lingua italiana, la pronuncia dei vocaboli dialettali presenta il ben noto fenomeno del raddoppiamento della consonante iniziale. Nell’italiano, tuttavia, il raddoppiamento è definito fonosintattico perché avviene solo per l’accostamento ad un vocabolo precedente. Nel dialetto, invece, il raddoppiamento avviene spesso anche a inizio frase o in frasi costituite da un singolo vocabolo. Si consideri ad esempio il raddoppio sistematico della consonante b (belle, bone) o quello frequente della r (rubbe) .

Per altre consonanti il raddoppiamento iniziale non è sistematico ma viene a dipendere, spesso inconsapevolmente, dall’attribuzione di una vocale o sillaba iniziale assoggettata ad aferesi. Questa situazione è evidente nei casi di ‘mmite (invito) e ‘nnivie (indivia), discutibile in ‘nnude (nodo) e ‘nnicchje (nicchia), recondita in ‘rraggiune (ragione) e ‘ssigniri’ (vossignoria).

Per arrivare a definire una regola che non presenti soverchie difficoltà applicative, suggeriamo di eliminare tutti i raddoppiamenti di consonante iniziale ricorrendo, quando opportuno, alla rappresentazione di un’aferesi.

Nei pochissimi casi restanti la pronuncia forte dell’iniziale è demandata all’esperienza del lettore.

I raddoppiamenti sono, invece, da indicare sistematicamente quando avvengono all’interno del vocabolo, specie quelli intervocalici che sono caratteristici dei dialetti centro-meridionali.

Per completezza aggiungiamo che per la semiconsonante j e la consonante ş il raddoppiamento non trova motivazione in nessuna posizione all’interno di un vocabolo.