Nella scrittura in dialetto guardiese l’uso dell’apostrofo è molto diffuso in quanto sono frequenti i casi che ne prevedono l'impiego ovvero:

  • elisione,
  • aferesi,
  • apocope (o troncamento).

Quest'utilizzo esteso rende di particolare importanza la definizione di regole per un uso corretto, o almeno coerente, dell'apostrofo.

Occorre dire che mentre in italiano l’uso dell'apostrofo è generalizzato solo nei casi di elisione, mentre nel dialetto tutti gli autori ne hanno fatto un largo uso anche negli altri due casi. In effetti, le particolarità del dialetto inducono a raccomandare l'uso dell'apostrofo in tutti i casi al fine di rendere più agevole l’identificazione del vocabolo “originario”. Quest'accorgimento contribuisce inoltre a eliminare molte situazioni di ambiguità tra forme omofone.

È opportuno ricordare che l’aferesi e l’apocope richiedono, di regola, uno spazio bianco rispettivamente precedente e susseguente l’apostrofo.

 

Elisione

L’elisione vocalica, ovvero la perdita della vocale finale atona davanti a parola che inizia per vocale, costituisce un aspetto piuttosto complesso nella trascrizione dialettale.

Innanzi tutto c'è da dire che la particolarità delle parole dialettali di avere nella quasi generalità la vocale finale indistinta rende problematica l'identificazione di effettive elisioni, se non si tratta di articoli (semplici, in associazione, o assimilati). Sono quindi comuni le elisioni l', n', all', dill' (o dell'), dall', chill', bell', avitr' (o avetr' o âtr'). Negli altri casi si tratta spesso di una sinalefe (fusione fonetica ma non grafica di vocali prospicienti) fortemente favorita dalla vocale finale indistinta.

Si suggerisce, per quanto detto, di rappresentare mediante apostrofo le elisioni solo nei casi evidenti.

A questo proposito sono da preferire, ad esempio, le soluzioni:

­  "Che ce aspitte?", rispetto a "Che c'aspitte?" o "Che ci-aspitte?", e

­  "Ch'à ditte?", rispetto a "Che à ditte?" o "C'à ditte?".

Nel primo caso si ha una rappresentazione semplice e immediata sfruttando la sinalefe, nel secondo si rispetta la metrica e si evitano ambiguità tra c dura e c dolce.

 

Aferesi

La caduta di una vocale o di una sillaba atona all'inizio di parola (afèresi) è un fenomeno piuttosto frequente nel dialetto guardiese e necessita di adeguata rappresentazione grafica nello scritto.

I casi più comuni si ritrovano in molte parole in cui viene a cadere la vocale iniziale a o i. In meno casi è interessata la u.

L'aferesi sillabica più frequente riguarda invece la sillaba chi (o che), in particolare nei dimostrativi (‘sti, ‘stu ecc. corrispondenti alle forme integre chisti, chistu ecc.), nella congiunzione chigna e nella preposizione chigni.

Si tenga presente che, in caso di incertezza, l'aferesi sul vocabolo seguente, specie se consolidata dall'uso, prevale sull'elisione nel vocabolo precedente. Si avrà quindi chilu 'mbrelle e no chil'umbrelle, li 'mbruje e no l'imbruje, bella 'mmasciate e no bell'ammasciate! Nel caso, poi, di vocali prospicienti diverse, la pronuncia più ricorrente preferisce l'aferesi all'elisione anche perché consente di individuare meglio il genere e il numero della parola interessata (la 'ntinzione, li 'ntinzione).

È opportuno segnalare, infine, che non richiedono la connotazione con apostrofo vocaboli che a tutti gli effetti hanno perso nel dialetto la vocale iniziale (es.:réne, stucce, sci’ nei significati rispettivi di sabbia, astuccio e uscire).

 

Apocope

Il ricorso all’apocope – eliminazione della parte finale di una parola - è molto diffuso nel dialetto guardiese, specialmente nella forma sillabica.

Nella scrittura della lingua italiana la presenza o meno dell'apostrofo dipende più che altro all'uso e talvolta sono accettate entrambe le soluzioni. Nella scrittura dialettale, la mancanza di uso consolidato porta a raccomandare l'uso sistematico dell'apostrofo.

L’apocope vocalica che riguarda solo la vocale finale è di difficile individuazione a causa della presenza pressoché sistematica della vocale finale indistinta che, come detto in precedenza, è opportuno sempre rappresentare. Questo caso risulta, quindi, molto raro, tanto da poter essere originato da semplice pedanteria.

Viceversa, l’apocope sillabica è molto diffusa e la si ritrova, ad esempio, in gran parte dei verbi all’infinito presente (es.: magna’, piace’, senti’) quando l'accento tonico va a cadere nella vocale finale. Resta quindi esclusa solo una parte dei verbi della seconda coniugazione, quali mette e piagne.

Nei casi citati l'indicazione dell'apocope è significativa per il fatto che la terminazione completa ricompare nelle forme pronominali (magnàrese le mane) e negli altri casi in cui l’infinito presenta particelle enclitiche (a magnàrele tutte quente jè piccate).

È il caso di ricordare che l’apocope avviene solo sulla parte seguente la vocale tonica:

­       ma’ per maje o mamme

­       vi’ per vije

­       malatì per malatije

­       signuri’ per signurije

­       Ami’ per Amìlchere.

Per questo motivo, in presenza di apocope, l’indicazione dell’apostrofo permette di fare a meno di rappresentare l’accento sulla vocale che lo precede.

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