Riservare poche righe a sant’Antonio di Padova sarebbe già di per sé offensivo, ma, nello stesso tempo, anche un’estrema sintesi dedicata alla sua figura occuperebbe molte pagine. Preferiamo, allora, limitarci alla descrizione sommaria della sua vita evidenziandone solo alcuni aspetti salienti meno noti o che mostrano quanto la Provvidenza sia intervenuta nell’indirizzare gli eventi.

Tutto avvenne in meno di 36 anni, compresi tra la sua nascita nel 1195 a Lisbona e il suo transito verso il cielo avvenuto alle porte di Padova il 13 giugno del 1231.

Il nome

Se non avesse voluto immischiarsi in questioni religiose, il portoghese Fernando de Bulhões, sarebbe stato indicato dalle nostre parti come il cavalier Fernando di Buglione, evidenziando la possibile discendenza con il ben noto Goffredo. Invece arrivò in Italia come Antonio da Lisbona, francescano.

Era accaduto che nel 1220 Fernando da Lisbona, canonico regolare agostiniano presso il monastero di Santa Croce a Coimbra, mentre perseverava nei suoi studi dopo la recente ordinazione sacerdotale, rimase profondamente colpito dal passaggio delle spoglie di cinque francescani italiani (i Santi Protomartiri Francescani) trucidati in Marocco dove erano finiti perché inviati in missione a predicare presso i musulmani. Si rese conto che non poteva continuare ad ampliare la sua dottrina per ridursi poi a tramare intrighi politici come gran parte dei suoi compagni nel monastero. Con ferma decisione chiese ai superiori il permesso di trasferirsi presso il vicino convento francescano di Sant’Antonio Abate dal quale poter intraprendere una nuova vita religiosa. Il priore del monastero lo accomiatò con una battuta di scherno che risultò profetica: «Va’, va’ a farti santo da loro!».

Al suo arrivo tra i nuovi confratelli chiese di cambiare il suo nome assumendo quello del santo cui era intitolato il convento. Il cambio del nome non è consueto tra i francescani, ma Fernando volle sottolineare il distacco dalla sua vita precedente e fu così che le generazioni successive lo conosceranno come Antonio di Padova, dal luogo di adozione da lui prescelto e nel quale si ritirò malato negli ultimi anni della sua breve vita.

Ma il problema più grosso per i francescani non fu il cambio di nome bensì, paradossalmente, la sua istruzione perché i francescani, appena costituitisi, la guardavano con timore ritenendo che contrastasse con il sentimento dell’umiltà, per loro fondamentale. Le resistenze furono molte ma Fernando, essendo già sacerdote, poté fare la professione religiosa senza il periodo di noviziato. Restò comunque circondato da un certo sospetto, ma lui si impegnò in tutti i modi a fugare ogni dubbio, dimostrando una sincera umiltà di cuore pur continuando a coltivare i suoi amati studi.

L’arrivo in Italia

Antonio da Lisbona persisteva nell’idea di andare a predicare la grandezza di Dio in Marocco e quando fu organizzata la missione, si ammalò di malaria già durante il viaggio di andata in nave.

Dopo molti mesi di inutili cure in terra d’Africa, lo convinsero a rientrare in patria. Ma questo non avvenne esattamente come previsto perché i venti avversi spinsero la nave fino alle coste siciliane, a sud di Messina e lì, nelle mani dei locali confratelli, riuscì rapidamente a ristabilirsi.

Prima che potesse pensare di tornare in Africa, arrivò un invito al Capitolo generale di Assisi e, una volta là, quando si accorsero della sua ordinazione sacerdotale gli giunse subito la richiesta di trasferirsi nel convento di Montepaolo, un eremo vicino Forlì, in cui i frati, tutti laici, erano rimasti sprovvisti di chi celebrasse messa. Antonio accettò molto volentieri l’incarico.

La predicazione

Un’altra svolta decisiva alla sua vita avvenne un anno dopo il suo arrivo nel Forlivese.

In occasione della cerimonia di consacrazione sacerdotale di confratelli nella chiesa di San Mercuriale a Forlì, all’ultimo momento ci fu la defezione dell’oratore incaricato. Anche a causa dei tempi stretti, non si riusciva a trovare nessuno disponibile per la sostituzione, neanche ricorrendo ai Domenicani, l’ordine colto. Fra Graziano, superiore dei francescani giocò la carta della disperazione: nelle loro file c’era un sacerdote e quindi un po’ di conoscenza di Sacre Scritture doveva avercela. Antonio provò a sottrarsi ma l’obbedienza faceva parte della regola.

Fu una rivelazione per capacità oratoria, erudizione, profondità dottrinale e fervore religioso. Le gerarchie dell’Ordine caddero in imbarazzo perché in qualche modo occorreva gestire questo dono prezioso e inatteso.

La faccenda fu sottoposta a Francesco che cominciò con l’assegnazione ad Antonio del ruolo di predicatore e insegnante (con una forte raccomandazione sul rispetto delle regole di orazione e devozione affinché non si montasse la testa).

Gli effetti dell’opera di Antonio furono strabilianti e immediati perché in poco tempo ci furono Francescani capaci di competere con i Domenicani in questioni teologiche e filosofiche e in grado di affiancarli nella predicazione. E non solo. Francesco si convinse che la predicazione dei suoi seguaci, religiosi poveri e umili con grande autonomia di movimento, era quanto di meglio la Provvidenza avesse potuto fornire per contrastare l’eresia catara che minacciava la Chiesa dall’interno. Ne parlò ai superiori e a tal fine Antonio fu inviato oltralpe, a Limoges, e poi nominato provinciale per l’Italia settentrionale. Per quest’ultima funzione stabilì la sua sede a Padova.

Le battaglie dottrinali e il recupero dell’«acculattata»

La vasta erudizione consentiva ad Antonio di condurre battaglie su numerosi fronti dottrinali che potevano riguardare Dio o gli uomini. Su quest’ultimo versante si interessò di diverse materie e in particolare dei vizi che impedivano di esercitare la pietà nei confronti dei poveri, quali lussuria, avarizia e usura.

A questo proposito, non si può tralasciare la sua battaglia contro la piaga dell’usura che portò alla riforma del Codice Statutario Repubblicano di Padova in senso favorevole ai debitori insolvibili senza dolo. Una modifica che gradualmente interessò tutti gli altri territori e di cui, curiosamente, è restata una traccia nella nostra stessa tradizione dialettale.

Si tratta di una particolare istituzione di carattere penale che ritroviamo in un’espressione ben nota ai guardiesi meno giovani e sulla quale Emidio Vitacolonna, nel suo Glossario del nostro dialetto, scrive: «nei tempi passati chi non onorava i debiti veniva condannato a dare "lu cule a lu tùmmele" in pubblica piazza». A cosa si riferisce, in effetti? Il piccolo mistero è legato alla pena prevista per chi, come detto, non onorava i debiti, pena comunemente inflitta mediante la “pietra del vituperio” (lu tùmele).

Non onorare un debito è sempre stato ritenuto colpa particolarmente grave sin dai tempi più antichi. Stando alle Leggi delle XII Tavole (V sec. a.C.) i creditori non soddisfatti potevano uccidere o ridurre in schiavitù il debitore. Fu Giulio Cesare a istituire la pena alternativa della “pietra dello scandalo”, una grossa pietra posta in prossimità del Campidoglio sulla quale i debitori procedevano alla svendita immediata di tutti i propri averi a favore dei creditori. L’operazione si eseguiva con una pubblica umiliazione consistente nella “cessione dei beni a natiche nude sopra una pietra” (“bonorum cessio culo nudo super lapidem”). Il debitore insolvente annunciava ad alta voce l’intenzione di svendere tutti i suoi beni e contemporaneamente si sedeva violentemente per tre volte sulla pietra. Distribuito il ricavato ai creditori, la colpa era considerata estinta ma l’eco della particolare pena faceva sì che il condannato non avesse più possibilità di avere credito in città.

Questa bizzarra pena attraversò i secoli fino a tempi relativamente recenti: ne restano tracce fino al XVIII secolo e in alcune aree del meridione d’Italia anche oltre. Ogni città aveva la sua “pietra del vituperio”, secondo la nuova denominazione, e su di essa si eseguiva il rituale definito dai codici “acculattata”.

È importante precisare che nel Medioevo questa pena alternativa cadde in disuso e si tornò in molti territori alla spoliazione dei beni accompagnata da pene corporali anche estreme: una bolla di papa Pio V, nel 1570, stabiliva addirittura la pena capitale per i bancarottieri.

A Padova, Sant’Antonio, consapevole del gran numero di cittadini rovinati dall’usura insieme alle loro famiglie, ottenne nel 1231 la modifica dello Statuto Comunale recuperando la pena dell’acculattata come condanna codificata in sostituzione del carcere perpetuo.

Negli ultimi secoli il diritto fallimentare ha cancellato questa pena pittoresca che però è rimasta nel lessico popolare con l’espressione di “da’ lu cule a lu tùmele”.

Di tutto questo non c’è solo memoria nel lessico dialettale. Infatti, ci sono ancora conservate pietre del vituperio in alcune località del territorio italiano. Una pietra cilindrica alta circa 80 cm con diametro di circa 70, si trova, nell’indifferenza generale, ai piedi della scalinata di S. Maria del Colle, in pieno centro a Pescocostanzo!

Un cero per il Santo

Per nostra fortuna (escludiamo che la Provvidenza si sia occupata del caso) per secoli si è parlato di sant’Antonio di Padova come di un grande oratore di cui si è addirittura preservata la lingua. La potenza del suo pensiero è rimasta per molto tempo in ombra tanto che il titolo di Dottore della Chiesa gli è stato riconosciuto solo nel 1946. Questo ritardo ha lasciato il tempo di dimostrare le sue immense capacità taumaturgiche ad un popolo devoto a quella figura esile di ingenuo fraticello (mentre non fu un semplice fraticello, e neanche ingenuo ed esile). Per fortuna, si diceva, perché solitamente i Dottori della Chiesa non sono famosi per la capacità di intercedere nella richiesta di grazie. Questo dipende solamente dal fatto che i santi «colti» la gente non li sente molto vicini. Un certo timore reverenziale induce per le grazie a rivolgersi altrove. Sant’Antonio di Padova costituisce una sfolgorante eccezione perché durante quasi tutta la sua breve vita religiosa da francescano dovette sempre dissimulare la sua dottrina che in quell’ambiente destava sospetti.

La sua immagine nei luoghi sacri è facilmente identificabile per l’abito e la tonsura cui si aggiunge quasi sempre un libro, Gesù Bambino in braccio e un po’ di gigli da qualche parte. Il libro mostra la sua dottrina mentre il Bambino ricorda la visita che il Santo ricevette in una delle tante notti trascorse in bianco per i mali che lo affliggevano negli ultimi anni. I gigli sono associati a purezza, innocenza, bellezza e semplicità, anche se c’è chi pensa erroneamente a un miracolo del Santo (un tempo si diceva: “Chi m’aj’ a mette a caccia’ li gije ‘gni sant’Antonie?” quando si voleva garantire la veridicità di quanto si era detto).

Immagini sacre le troviamo in molte nostre chiese ma la più importante dovrebbe essere quella nella chiesa di san Francesco, nel centro cittadino, dove sono collocate le spoglie di san Nicola Greco. Come tradizione locale la sua festa si celebra il lunedì che segue la festa del santo eremita (terza domenica di maggio).

Sono anche previste celebrazioni il 13 giugno, giorno della memoria liturgica e a questa data sono legate le tradizionali devozioni dei tredici martedì di preparazione.

Il numero tredici ricompare anche per i “sequeri” da recitare ininterrottamente fino a tredici volte se si vogliono rinvenire oggetti smarriti.

E secondo voi a cosa corrisponde il 13 nella Smorfia napoletana?

Ultimo aggiornamento ( 24 Settembre 2024)