Riprendiamo l’espressione concisa molto in voga anni fa (oggi si direbbe «virale») per avventurarci in alcune considerazioni sui «forni guardiesi», le panetterie di quell’epoca in cui si continuava a ripetere “Bone pane chi ti megne!” in contesti ben diversi: si apostrofava bonariamente qualcuno considerando che la spesa per il suo vitto costituiva un cattivo investimento.
Ecco, il pane era fondamentale e preponderante nelle diete dei periodi grami e quindi non meravigli come nel duro periodo post-bellico i forni erano un riferimento importantissimo nella vita cittadina. In un certo senso, per le signore, i forni erano quello che per gli uomini erano le “cantine”. Ci si fidelizzava e quasi quotidianamente si faceva una capatina per scambiare due parole con i titolari o con gli altri avventori.
Quali erano i forni di quel periodo, anni ’60 e dintorni? Proviamo a passarli in rassegna identificandoli con i titolari “storici” perché i nomi commerciali non si usavano.
In via Roma, di fronte alle Mòneche (la sede della Mostra dell’Artigianato) c’era il forno di Ciccille e Sabbijucce. L’inconsueto nome della titolare ha dato vita alla definizione proverbiale di “furne di Sabbijucce” per indicare una bocca oltremodo ampia.
Più su, all’altezza della ruve di Spachitte c’era il forno di Currade e Pavije, ma tutti lo chiamavano “di Pavije”.
Proseguendo lungo il corso, di fronte a “Duminicucce, lu salarole”, ora tabaccheria Adorante, c’era “lu furne di lu Cignale”, identificato col soprannome di famiglia di Carmene che lo gestiva col fratello Alde, panificatore insieme al prezioso aiutante Rocche.
Ancora più su, di fronte alla chiesa di San Silvestro, c’era il forno di Rusine di Mitille. Esercizio particolare sul quale vale la pena tornare.
In via Modesto della Porta, in corrispondenza della ruve di Barracche, prima di Porta Macello, c’era lu furne di Clare, panetteria identificata popolarmente col soprannome del marito Vincenze. I due coniugi portavano avanti l’attività che, a memoria, dovrebbe essere quella a maggiore smercio.
Per ultimo abbiamo lasciato l’unico forno ancora in attività: quello di “Sbiandore”, passato attraverso vari discendenti e denominato ora «l’Antico Forno». All’epoca vi panificava Armande di Micchiline e Micchiline (Sbiandore) era l’ascendente a cui è intitolato l’angusto vicolo adiacente (vicolo Michelino).
Ma torniamo ora all’esclamazione del titolo. Ci siamo chiesti se fosse il caso di estenderla a “Ah, bone pane di na vote!”. Abbiamo fatto un piccolo sondaggio (molto ristretto, in verità) ed è risultato che la qualità del pane non era in generale strabiliante: i formati erano pochi e standardizzati quindi il confronto era piuttosto agevole. Non c’era una panetteria che spiccava particolarmente per la qualità e questa, come detto, non era poi eccezionale.
I formati erano quelli che si trovano anche oggi. Il più venduto era il filone di grano tenero da 1kg (filone o schjire) seguito dal più sottile filoncino da 0,5kg (filuncine o sfilatine). Qualche fornaio produceva anche lu quajuzzelle, forma da 0,5kg con la sezione della forma da chilo.
Con grano duro o grano tenero meno raffinato si producevano pagnotte tonde da 1kg (panelle) o forme allungate da 2kg (schjirone). Queste forme erano prodotte quasi sempre secondo le modalità del casarecce.
A questo punto, però, è il caso di cambiare decisamente registro.
Lasciamo stare il pane tradizionale aggiungendo che di panini, allora come ora, a Guardiagrele neanche l’ombra. Il pane si compra nel formato grande e si affetta perché così si ha un giusto equilibrio tra crosta e mollica e soprattutto è più facile fare una farcitura omogenea dal primo all’ultimo morso.
Orbene, spostandoci dal pane classico troviamo subito il fiore all’occhiello dell’arte bianca guardiese: le pizze! I veri guardiesi avranno capito che non stiamo parlando delle pizze come le si intende oggigiorno: a Guardiagrele non c’erano pizzerie e il pomodoro, la cipolla, i salumi si mettevano direttamente sulle fette.
Qui stiamo parlando di quella che adesso si usa chiamare la “pizza pane”, la focaccia con olio e sale in superficie. A nostro parere questo prodotto, fatto come si deve, meriterebbe di essere presidiato!
È eccezionale al naturale ma, certamente lo saprete, diventa cibo divino se lo scaldate e lo farcite con mortadella fredda tagliata sottile. L’unica cosa che non si riesce a farci è la scarpetta ma, per il resto, chiudete gli occhi ed estasiatevi! Non aggiungiamo altro perché fa venire appetito anche subito dopo il caffè dopo pasto. Ricordiamo particolarmente quello che produceva Clare.
Per concludere il discorso sui prodotti da forno salati citiamo li panine all’oje (specialità di Pavije) e li taralline all’ànese o ai semi di finocchio (specialità di Clare).
Molti fornai ampliavano la gamma di prodotti con dolci di preparazione abbastanza semplice ma dal gusto eccellente e memorabile.
Più di un fornaio produceva i cosiddetti «biscotti della salute» (li miscutte). Ottimi per la colazione e degni di menzione quelli di Pavije e di lu Cignale.
A proposito di Pavije, non possiamo non ricordare i maritozzi, niente a che vedere con gli attuali cornetti. Prodotto da podio che diventava da estasi quando lo si farciva con qualcosa di dolce!
Simili ai maritozzi erano li susamille, degni di menzione quelli di lu Cignale.
C’era poi Rusine di Mitille che faceva storia a sé per i prodotti dolci. Di pane ne produceva poco ma si dedicava lodevolmente ai dolci secchi tradizionali, quelli che non trovavi normalmente nelle pasticcerie. Da Rosina, se eri fortunato, trovavi suspire, funicchjitte e spulette. Grande pasticceria nella sua semplicità. A lei si ricorreva per le forniture in occasione di matrimoni o prime comunioni. Funicchjitte come quelli di Rosina non li abbiamo più assaggiati.
Insomma, il pane di quell’epoca non era memorabile, ma tutto il resto…
Ultimo aggiornamento ( 22 Novembre 2023)