Alcune settimane fa abbiamo pubblicato una nota in cui si ricordavano i forni presenti a Guardiagrele oltre mezzo secolo fa, negli anni ancora di dopoguerra che costituiscono uno spartiacque storico nella nostra città. Dopo il periodo di sfollamento per i ben noti eventi bellici, Guardiagrele ripartiva con un vigore mai più visto successivamente.
L’alimentazione non era ancora eccessiva, anzi. Il pane era alla base di tutti i pasti giornalieri per qualsiasi strato sociale e per permettersi qualcosa di diverso bisognava essere, se non benestanti, almeno economicamente ben posizionati. Nessuno si sognava di demonizzare il pane per sostenere diete ipocaloriche e quindi la produzione e il consumo erano a livelli oggi impensabili.
Tutto questo lo diciamo perché vogliamo ricordare alcuni aspetti curiosi legati all’attività di quei forni. Aspetti che al giorno d’oggi potrebbero sembrare solo bizzarrie ma all’epoca, per l’importanza di queste attività, avevano diffusione tale da farli rientrare nelle comuni pratiche quotidiane.
Cominciamo con l’evidenziare il fatto che continuiamo qui a chiamarli «forni» nonostante che il termine sia oggi quasi in disuso perché la vendita del pane avviene sempre meno in locali dotati di forno. Non così allora: il pane si acquistava effettivamente dove c’era il forno.
Tutto questo rispecchiava ancora l’antico concetto dell’esercizio dell’attività di «fornaio», non di «panettiere». Fino agli inizi del secolo scorso, infatti, il pane si faceva prevalentemente in casa e chi non aveva la possibilità di avere un proprio forno ricorreva ai fornai che gestivano i cosiddetti «forni comuni». In questi forni, rigorosamente a legna, si andava con preparati fatti in casa e li si lasciava lì per la cottura. L’operazione avveniva a orari concordati con il fornaio di fiducia che veniva remunerato per questa prestazione. Insomma, si trattava di un servizio e non di una vendita.
Si comprende benissimo che il servizio non poteva limitarsi al pane ma riguardava anche prodotti di pasticceria e pietanze che richiedono una preparazione, ovviamente, al forno. Infatti, nella bella stagione, quando i camini domestici erano spenti, la teglia con il coniglio «in purgatorio» non veniva messa sotto il coppo in casa ma veniva affidata al fornaio. Questi programmava le cotture nei tempi morti tra le infornate di pane (operazione, questa, molto delicata) raggruppando con perizia le preparazioni che richiedevano cotture simili. Ovviamente c’erano anche le grandi produzioni di pasticceria casalinga in occasione di cerimonie (matrimoni e prime comunioni poi, in subordine, battesimi e cresime), senza dimenticare “li funicchjitte” per la «veneziana» in occasione delle «riuscite dei morti» (occorre spiegare di cosa stiamo parlando?). Nella memoria di molti sono ancora impresse le immagini dell’andirivieni di «canalette» da forno tra l’abitazione di “Susanne di Mastre Rocche” e i forni a lei vicini: produzioni industriali di una vera specialista in dolci casalinghi!
Insomma, fino a una cinquantina d’anni fa, nei «forni», entrando, potevi vedere coi tuoi occhi i protagonisti della panificazione, il forno con le fiamme vive e il fornaio, sempre in maglietta a maniche corte. Attori di quel rito laico dai molti risvolti sacri. Ora il tutto è nascosto e la panificazione avviene fuori orario di apertura, spesso in un luogo diverso.
Si diceva all’inizio di alcune consuetudini strane che si praticavano in quegli esercizi.
Citiamo, innanzi tutto, la pratica de “lu cagne di la farine”. I contadini dell’epoca vivevano in estreme ristrettezze e spesso si trattava di mezzadri vessati oltre il consentito da padroni e fattori. Nonostante le molte tecniche difensive, erano in pochi a superare tranquillamente il limite di sopravvivenza. In queste condizioni la disponibilità di denaro era quasi nulla. Qualcosa rimediavano al mercato e le pensioni per i più anziani erano ancora di là da venire. Occorre anche aggiungere che tutti in casa erano costretti a dare una mano nel lavoro dei campi e anche le donne non potevano dedicare molto tempo alla preparazione del pane.
Per tutti questi motivi era pratica corrente da parte dei contadini recarsi dai fornai con un quantitativo di farina prelevata dalle scorte di spettanza. Il fornaio, dopo un accurato esame qualitativo e quantitativo, consegnava al contadino un corrispondente quantitativo di pane. Lo scambio avveniva a pari peso: il compenso del fornaio era il differenziale di farina scambiato (nel pane è contenuto un buon quantitativo di acqua).
Sempre a motivo della scarsa disponibilità di denaro era diffusissima “la libbrette”. Si trattava di un quadernetto dalla copertina nera con le pagine bordate di rosso all’esterno. Serviva per registrare le consegne di pane con i relativi importi e replicava la registrazione che il fornaio faceva in un grande quaderno comune dentro in bottega. A “la libbrette” ricorrevano non tanto i contadini quanto le famiglie di operai a giornata e di piccoli artigiani, lavoratori che riscuotevano la paga saltuariamente. Moltissime erano, poi, le famiglie di emigranti che, pur ricevendo le rimesse abbastanza regolarmente, le vedevano subito svanire nel pagamento dei debiti già contratti. Era impressionante vedere in quanti ricorrevano a “la libbrette”, non solo dal fornaio ma anche presso i negozi di generi alimentari.
A questo riguardo vogliamo ricordare quello che avveniva prima dell’ultima guerra. Alcuni avranno sentito parlare di questa bizzarra pratica ma probabilmente anche i meno giovani non hanno avuto un nonno che gliene abbia parlato. È più facile, invece, che siano in molti a conoscere il verbo “ ‘ntacca’ “ nel suo significato gergale di «mancare di onorare un debito».
Cominciamo col chiederci: quando l’analfabetismo era assoluto tra le classi più povere, come si potevano registrare debiti e crediti?
Certo, si sarebbe potuto usare la libbrette per segnare i quantitativi con le aste. Però, spendere anche pochi soldi per l’acquisto di bei quadernetti e poi usarli solo per scrivere “bastunille”…
Allora divenne popolare un metodo economico e chiaro nella sua semplicità: un bastone in legno su cui eseguire tacche. Solitamente si trattava di due spezzoni di canna ben riconoscibili sui quali alla consegna del pane si eseguivano tacche corrispondenti. Uno dei bastoncelli restava presso il fornaio, l’altro era riconsegnato al cliente in modo da consentire il controllo incrociato. Al momento del saldo si procedeva alla distruzione dei bastoncelli.
Questa consuetudine fece sì che il verbo “ ‘ntacca’ “ assumesse anche il significato di acquistare a credito, senza pagare (al momento). Col passare degli anni e con il venir meno di questa pratica, si cominciò ad usare il verbo in modo scherzoso, prima per indicare che non si è proceduto al pagamento, poi con il significato più negativo di «non pagare un debito».
Questa è quindi l’origine dei termini “ ‘ntacca’ “ e “ ‘ntaccature“ (chi è aduso a non pagare i propri debiti), risalendo ai tempi in cui il pane si acquistava a credito.
C’è chi dice che la crisi degli ultimi anni ha fatto tornare in auge “la libbrette”. Poco male. Speriamo non tornino pure “li ‘ntaccature“.
Ultimo aggiornamento ( 20 Luglio 2019)