Oggi pomeriggio c’è stata un’apertura straordinaria della Cantine perché dovevamo organizzarci per i lavori di aggiornamento del nostro Dizionario del Dialetto Guardiese. Però, all’arrivo di donn’Arnalde la faccenda ha preso una piega diversa perché dun Ciccille lo ha subito apostrofato: «Arna’, non lo festeggi halloween?». Lu nutare s’à sùbbete cagnate di culore: «Lo sai che di queste cose non voglio sentire parlare. Feste straniere di origine pagana che attecchiscono nelle menti più sgombre che anelano di riempirsi con qualsiasi cosa!». Il nostro notaio è sempre drastico nei suoi giudizi e dun Ciccille lo provoca apposta.
«Per tutti questi bambini travestiti in modo raccapricciante bisognerebbe ricorrere a denunce per maltrattamenti!» ha proseguito. Poi, calmatosi, si è rivolto a dun Ciccille con tono di sfida: «Cicci’, ti piace halloween? Allora facciamolo alla guardiese cominciando con una grafia più familiare: galloguinne. E siccome noi abbiamo rispetto dei morti ma non degli spiriti facciamo così: Giansante, fa’ un po’ di brace, tira fuori gli arrosticini con lo stecco di frassino (di frassino, mi raccomando!) e prepara del pane bruschettato con tanto ma tanto aglio. L’aria deve sembrare irrespirabile per chi arriva da fuori!».
Così ho fatto e mentre cominciavamo a sgranocchiare qualcosa, donn’Arnalde, non contento ha aggiunto: «E adesso sapete di cosa parliamo? Fate pure gli scongiuri ma per esorcizzare questo galloguinne parliamo di morti, quelli veri, e più precisamente di funerali!!!».
Superata qualche iniziale nostra resistenza, don Arnaldo ha iniziato esternando il suo disappunto per i funerali che gli tocca vedere, non solo a Guardiagrele. Partecipazione sempre più scarsa e meno sentita discorsi melensi in chiesa e pettegolezzi lungo il corteo (non siamo riusciti a dargli torto).
Poi ha cominciato col ricordare quello che accadeva una volta.
Quando c’era un moribondo al mattino la campana suonava a martello l’«agonia» e l’agonia avveniva sempre alla presenza di parenti che assicuravano il loro conforto. Dopo il trapasso, la stanza del defunto si trasformava in camera ardente e la veglia continuava con preghiere e rosari fino alla chiusura della bara per la cerimonia funebre. La salma veniva sistemata con i piedi verso l’uscita e questo ha dato luogo alla superstizione di non disporre in questo modo i letti nelle stanze destinate al riposo.
Subito dopo il decesso o, con discrezione, anche un po’ prima, uno dei congiunti aveva messo in preallarme il mitico Gioacchino per cominciare ad organizzare il servizio di pompe funebri.
Per prima cosa si andava dal prete per concordare giorno e ora dell’ufficio funebre. Non era mai molto difficile, quasi che i preti di allora non avessero molto da fare...
La seconda tappa era il falegname di fiducia per far preparare la bara. Sì, perché le bare si facevano su misura e al momento! I falegnami si mettevano subito al lavoro, anche di notte e nei giorni festivi! In poche ore era pronta la cassa ancora odorosa di impregnanti e colla di coniglio.
Altra tappa era Rocco (Uscirone), fiorista e «governatore» della Villa Comunale. I familiari del defunto ordinavano corone (quelle grandi, con le stecche per poterle trasportare a mano e appoggiarle in verticale) e cuscini di fiori con le dediche dei bambini. Anche Rocco, senza mai abbandonare la sua coppola sulle ventitré, si metteva all’opera immediatamente con la moglie Maria nel locale all’angolo di largo Belvedere: le ordinazioni di amici e parenti arrivavano di continuo e altri fioristi in zona non ce n’erano.
C’era da stupirsi quando si constatava che tutto era pronto nell’arco di una giornata!
Gioacchino aveva sistemato le pratiche amministrative e procedeva alla chiusura della bara. Il feretro usciva dalla casa in centro o arrivava a porta San Giovanni. Il corteo si avviava con in testa i fiori portati a mano da persone di varia età, reclutate da Gioacchino per poche lire, comunque gradite da ragazzi con le tasche sempre arieggiate. Il feretro, posto sull’autofunebre con speciali marce ridotte, procedeva lentamente risalendo via Roma fino alla chiesa parrocchiale, Santa Maria Maggiore o San Nicola di Bari. I parenti seguivano in rigoroso ordine secondo grado di parentela, poi gli amici e i conoscenti, in maggioranza uomini. Si sentivano solo i rintocchi delle campane delle chiese che via via venivano avvicinate, inframmezzate dal rullo delle saracinesche che si abbassavano. Tutti, ma proprio tutti i negozi chiudevano i battenti al passaggio del corteo.
In chiesa la cerimonia era sobria. Solo il celebrante prendeva la parola per sottolineare i pregi e i meriti del defunto. I parenti restavano compresi nel loro dolore senza particolari desideri di andare a manifestarlo con pubbliche dichiarazioni spesso imbarazzate e a volte imbarazzanti.
La bara usciva, come era entrata, sulle spalle di congiunti o conoscenti che in tal modo intendevano manifestare più palesemente la partecipazione al dolore e il legame con il defunto. Ricollocata la salma sull’autofunebre, il corteo riprendeva la sua lenta marcia fino a largo Garibaldi, al Piano, dove il sacerdote che aveva proseguito nell’accompagnamento impartiva l’ultima benedizione al defunto. Dopo l’omaggio finale dei presenti, l’autofunebre trasportava la salma al cimitero in attesa della sepoltura.
Al Piano avveniva anche la presentazione delle condoglianze ai congiunti ma gli amici e conoscenti più prossimi accompagnavano i famigliari fino a casa per un ultimo saluto. I famigliari sarebbero rimasti chiusi in casa fino alla «riuscita».
A questo punto accadeva un fatto strano: tutti gli accompagnatori correvano in chiesa per una visita velocissima. La visita, nella superstizione popolare, costituiva un rito di purificazione dalle negatività legate alla cerimonia. Senza questo passaggio si riteneva di portare disgrazia alla prima abitazione che si andava a visitare. Questo punto era molto sentito e si narra di persone che si erano viste rifiutare l’ingresso perché la popolazione aveva notato l’inosservanza di questo precetto.
Tornando ai familiari, si è detto che questi rimanevano chiusi in casa per alcuni giorni. Ricevevano visite di condoglianza da parte di conoscenti, quasi esclusivamente donne, che portavano il tradizionale «cònsolo» rappresentato immancabilmente da confezioni di zucchero e caffè. Il caffè per tirarsi su e lo zucchero per addolcire il dolore. Al termine del periodo le scorte ammontavano a parecchie decine di chili! Mesi e mesi di fornitura.
Durante i giorni di ritiro casalingo i pasti erano assicurati dai parenti più stretti. I familiari non dovevano cucinare e nemmeno rassettare. Parenti e vicini si occupavano di tutto per lasciare che i familiari elaborassero il loro lutto.
Il ritorno alla vita normale avveniva con la messa detta di «riuscita», alcuni giorni dopo. Terminata la messa i famigliari accoglievano in casa i partecipanti con un ricevimento in cui offrivano i tradizionali «funicchjitte e vinizijane». Ci piace concludere queste note su una materia piuttosto triste con questo spunto gastronomico che inneggia al buon vivere.
Abbiamo voluto cogliere l’occasione di questi giorni per ricordare queste tradizioni non per crogiolarci nella nostalgia ma per sottolineare quello che abbiamo perso, di positivo o di negativo. Giudicate voi.
Ad ogni modo, parlandone alla Cantine, ci siamo ritrovati concordi sul fatto che di «veneziane» ne abbiamo anche trovate di migliori in tempi recenti ma dei veri «finocchietti» da inzuppare si sono perse le tracce.
Ultimo aggiornamento ( 24 Novembre 2019)