Questo dolce squisito che cento anni fa rappresentava un vanto per la nostra provincia teatina sembra scomparso dalle nostre tavole e dalla nostra memoria.
È strabiliante, però, che nel frattempo abbia attecchito con modifiche poco significative in territori limitrofi che se ne attribuiscono l’origine con una diversa denominazione e sfruttando la nostra indolente smemoratezza.
Leggendo qua e là su libri o in rete succede che la mente venga colpita da una notiziola spicciola per il solo fatto che di quella faccenda nulla si sapeva o neanche si poteva immaginare. Questo ci è accaduto di recente mentre sfogliavamo la ristampa anastatica della prima edizione della Guida Gastronomica d’Italia del Touring Club Italiano, risalente al 1931. Ovviamente la nostra attenzione è andata prima di tutto ai resoconti riguardanti il nostro territorio e, tra le molte sorprese, ce n’è stata una che ha avuto implicazioni di una certa importanza.
Dopo aver precisato che l’Abruzzo presenta una sostanziale uniformità dal punto di vista gastronomico (a parte le inevitabili differenze tra la cucina di terra quella di mare), si elenca una serie di specialità che caratterizzano in particolare i territori delle province dell’Aquila e di Chieti. Già questa potrebbe indurre ad una certa sorpresa perché in molti penserebbero ad una storica preminenza gastronomica del territorio teramano e pescarese (quello che una volta costituiva l’Abruzzo Ultra I). Andando avanti nella lettura si nota che la nostra provincia teatina viene indicata come un riferimento per la preparazione di dolciumi, anche se poi essi presentano una certa diffusione a livello regionale: pizzelle, uccelli ripieni, cicerchiata, castello, zeppole, cervone, calcionetti, crispelle ecc..
Quando si parlava di sorprese ci riferivamo, però, principalmente ai «torroni di fichi secchi» per i quali si legge: «... sono una specialità molto rinomata di Chieti ove ne esistono varie fabbriche. Essi sono preparati con fichi secchi pressati a strati interposti con cioccolata, mandorle tostate, cannella, essenza di limone, ecc.; si fanno in cilindretti del peso di 250-300 grammi, avvolti in stagnola per la conservazione: vengono ampiamente esportati sui mercati dell’interno e dell’estero». Ebbene, sulla base di questa descrizione che, da un lato, scorrendo l’elenco degli ingredienti, fa chiaramente immaginare la bontà di questo prodotto e, dall’altro, mostra la semplicità di preparazione che non richiede cottura, come si può spiegare che tutte quelle fabbriche non esistono più o, perlomeno, non li producono in quantità commercialmente rilevante? Ancora più strabiliante è che dalle nostre parti sembrano proprio scomparsi anche nella produzione casalinga! Ci viene il sospetto che questi torroni siano rimasti vittime di una ricorrente sciagurata mentalità da nuovi ricchi, purtroppo molto diffusa dalle nostre parti. Mentre il costo di cioccolato e mandorle ha disincentivato la loro produzione casalinga presso le famiglie più modeste, quelle benestanti che li acquistavano in pasticceria hanno cominciato a considerare i fichi, specie quelli secchi, cibo da poveri, «roba da cafoni» non degna di comparire sulle loro tavole; meglio acquistare i torroni industriali di pubblicizzate fabbriche del Nord Italia.
Qualunque sia stato il motivo della sparizione dei torroni di fichi secchi, sta di fatto che nella nostra provincia teatina (già Abruzzo Citra) la loro presenza non è attualmente segnalata. Approfondendo ed estendendo l’indagine, però, si riescono a scovare alcune tracce che, inopinatamente, conducono al di fuori del nostro territorio.
In una ricerca condotta dalle Scuole Medie pescaresi negli ultimi anni ’90 e sfociata in una pubblicazione delle Edizioni Tracce, si parla di «torroncini di fichi secchi» realizzati compattando a forma di salame fichi secchi riempiti singolarmente con noci, mandorle e cioccolato. Potremmo definirla una versione più rustica rispetto alla ricetta antica e questo, nonostante la bontà complessiva non risultasse pregiudicata, potrebbe aver influito negativamente sulla sua diffusione. In sintesi, “lu turrune di caracine” è difficile da rintracciare in tutto il territorio regionale, pur tuttavia, qua e là, nasce il sospetto che la nostra specialità non sia passata inosservata in area teramana, territorio che da anni mostra notevole effervescenza in campo gastronomico.
Se cercate o chiedete notizie del nostro torrone, non troverete grandi riscontri in quello che fu l’Abruzzo Ultra I. Provate invece a chiedere informazioni su “la Libbrette”. Troverete che si tratta di un dolce a forma di mattoncino (o libretto) con le facce costituite da uno strato di fichi secchi aperti e all’interno tre strati: uno strato intermedio aggiuntivo di fichi e altri due realizzati con un misto di mandorle tritate grossolanamente, scaglie di cioccolato fondente e cedro candito. Nella farcitura si aggiungono altri ingredienti variabili quali cannella, cacao amaro, buccia di limone, zucchero e mostocotto (sapa). Gli ingredienti base sono gli stessi del nostro torrone di fichi secchi con la sola aggiunta dei canditi che sono un ingrediente tipico dei nostri dolci tradizionali. Il tutto viene preparato all’interno di formelle che vengono pressate per alcune ore.
Solo una coincidenza fortuita? Quasi certamente no, sia perché di questa preparazione dolciaria la Guida Gastronomica del TCI non fa menzione, sia perché in alcuni siti web si fa cenno di sfuggita proprio a una sua origine teatina. Fin qui possiamo parlare di una variante di forma che sorprende solo a metà.
Dobbiamo però rendere conto di un ultimo passaggio che ci ha colpiti duramente: se provate a cercare nel web «lonzino di fico» avrete la grande (amara) sorpresa di trovare alcune aziende che producono sotto questo nome un salsicciotto che per aspetto e ingredienti corrisponde al nostro torroncino di fichi secchi. Anzi, di più: in qualche caso hanno recuperato addirittura il nostro confezionamento originale che prevedeva di avvolgere l’impasto con foglie di fico legate con filo di lana.
L’amarezza profonda della scoperta deriva dal fatto che queste aziende sono tutte marchigiane! e ancor di più, per ridare slancio alla produzione di fichi nella loro regione i nostri vicini hanno ottenuto il riconoscimento PAT (prodotto agroalimentare tradizionale) per il loro lonzino di fichi cui Slow Food, per colmo di misura, ha dedicato un apposito presidio da oltre vent’anni!
Siamo andati a controllare nella Guida del Touring Club Italiano del 1931: di un prodotto di questo tipo non abbiamo trovato alcuna menzione nella sezione dedicata alle Marche.
In conclusione: siamo di fronte ad un ennesimo caso di negligenza nella tutela del nostro patrimonio gastronomico. Non sarebbe ora di cominciare a rivendicare l’origine di preparazioni che appartengono alla nostra regione? Da dove partiamo? Dal semisconosciuto «torrone di fichi secchi» o dalla mitica pasta «alla Matriciana» (meglio che «all’Amatriciana») o ancora dalla loro progenitrice «alla Griscia» (meglio che «alla Gricia»)? Così, solo per iniziare.